Andrea De Carlo, Due di due, Torino, Einaudi, 1999, pp. 44 – 47

Un giorno la Dratti stava facendo il suo gioco sadico dell’indice scorso lentamente sul registro, gli inizi di nomi mormorati per suscitare terrore nella classe. Poi con il solito scatto improvviso ha detto “Laremi”.

C’è stato il solito soffio di sollievo di tutti gli scampati, seguito da aggiustamenti di sedie e cambiamenti di posizione mentre Guido si alzava. Lui mi ha dato appena un’occhiata ed è andato verso la cattedra, e pensavo a come eravamo sdoppiato a questo punto, tra i nostri desideri di trasformazione e la realtà ottusa che continuavamo ad assecondare ogni giorno.

La Dratti con voce del tutto priva di emozioni gli ha detto “Traduci questo. Pagina 121”. ha controllato che aprisse il manuale di greco; è stata ferma e rigida in attesa, senza più guardarlo. La classe respirava lenta, affascinata dal disastro imminente di un altro.

Guido ha fissato la pagina del manuale: i piccoli caratteri remoti. Si è passato una mano tra i capelli, ha scosso la testa; la Dratti ha contratto le labbra incredibilmente sottili e pallide.

Guido l’ha guardata, e o pensato che stesse per gridarle qualcosa, insultarla o anche saltarle alla gola in un film dove si vede un personaggio positivo spinto all’esasperazione da un personaggio odioso. Invece è tornato con gli occhi al manuale e ha cominciato a dire “In una casetta ai limiti del bosco vivevano tre porcellini: Gimmi, Tommi e Sammi…”

La classe ha avuto uno spasmo di incredulità allibita; la Dratti è andata all’indietro con la testa, si è bloccata in un vuoto di reazioni: Guido sembrava così meticoloso, come se stesse davvero traducendo parola per parola il testo greco. Non era affatto una scena buffa, e nessuno di noi si sognava di ridere; ascoltavamo la storia dei tre porcellini in un gelo drammatico: Guido è andato avanti senza scomporsi, serio e dritto di fianco alla cattedra; ha continuato “Un giorno il più grande dei tre porcellini decise di costruirsi una casetta per conto suo…”

Poi la Dratti è uscita dalla sua paralisi momentanea, con una reazione così scomposta da squlibrarle la voce, fargliela saltare su un registro isterico. ha urlato a Guido che avrebbe fatto un rapporto al preside e gli dava tre in greco e lo cacciava fuori e non voleva più vederlo; è venuta avanti con la faccia livida ha battuto le mani rinsecchite sulla cattedra fino a farsi male.

Guido adesso aveva un mezzo sorriso triste, come se provasse dispiacere per questi suoni e queste espressioni deteriorate. È andato verso la porta, e mi è sembrato più fragile di come lo vedevo di solito: un quindicenne con una testa di capelli biondastri piena di immaginazioni.

la classe era immobile, senza sguardi: La Dratti ansimava per riprendere fiato, le tremavano le braccia.

Sembrava che lo sfacelo della vecchia nave fosse ormai inarrestabile, e invece appena la fine dell’anno scolastico ha cominciato ad avvicinarsi tutti gli studenti sono diventati di colpo più ragionevoli. Anche quelli di terza liceo battaglieri e sicuri di sé, quelli che avevano sfondato per primi il cancello sul cortile e tenuto lunghi discorsi articolati nella palestra., hanno cominciato a dire che la cosa importante a questo punto era non farsi bocciare, non dare una vittoria gratuita ai professori. Hanno fatto marcia indietro quasi da un giorno all’altro e si sono rimessi a studiare, determinati come una volta a prendere buoni voti. La vecchia nave si è riassestata e ha ripreso la rotta come se non ci fosse mai stato il minimo segnale di pericolo; l’equipaggio non cercava di nascondere la sua soddisfazione.

Io e Guido abbiamo continuato a tendere l’orecchio e guardarci intorno in attesa di altri rumori, ma presto è stato chiaro che era tutto finito. Abbiamo dovuto riprendere i libri che speravamo di non rivedere mai più, rimetterci ad accumulare nozioni inutili; e l’idea ci provocava troppa frustrazione per poterlo fare insieme. Studiavamo ognuno per conto suo, il mattino evitavamo di parlarne. Margherita Tardini non usciva più con me nemmeno il sabato; mi ha detto che dovevamo pensare solo alla scuola perché c’era in gioco il nostro futuro. Ho passato tutti i pomeriggi di giugno chiuso nella mia stanza, con l’idea che l’orizzonte si era rinchiuso ancora peggio di prima, dopo essersi incrinato per un attimo.

A luglio abbiamo fatto l’esame di ammissione al liceo. Se fosse dipeso dalla Dratti e dalla Cavalli io e Guido saremmo stati bocciati di sicuro, ma per fortuna c’erano altri professori a giudicarci. Uno di loro ha fatto osservazioni astiose sulla lunghezza dei capelli di Guido, un altro sullo svolgimento del mio tema di italiano; ma la loro ostilità non aveva radici personali, hanno finito per promuoverci tutti e due.

Dieci giorni dopo siamo andati a leggere i risultati sui tabelloni nell’atrio; non avevamo sentimenti particolari, a parte un senso smorzato di sollievo. Siamo tornati in strada, nel caldo soffocante dell’estate milanese, e il ginnasio era finito, avevamo davanti la distesa enorme e incerta delle vacanze.


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