Ha senso, ancora, interrogarsi sul “sacro” per coglierne il senso nella sua evoluzione, attraverso linee di continuità /discontinuità, dal mondo greco al cristianesimo?
La risposta non può che essere affermativa, se l’intento è quello di riflettere sulle proprie radici culturali con spirito libero. Questo è quello che questo scritto ci propone.

Diciamo la verità: abbiamo studiato a scuola le antichità classiche senza cogliere la contraddizione tra i miti degli inizi della nostra civiltà e il persistere della polemica antipagana contro gli dei falsi e bugiardi. Ne è derivato che non ci rendiamo conto di quanto, proprio nell’ambito del “sacro”, abbiamo assorbito dai pagani per la necessaria mediazione che – tranne nei tempi in cui le persecuzioni rafforzavano la coscienza di essere incompatibilmente alternativi – gli stessi Padri della Chiesa hanno operato, per l’impossibilità di eliminare sia il linguaggio, sia i metodi dell’apprendimento educativo, che per tutti era stato e restava greco/ellenistico e romano.
In ogni caso, la tradizione monoteista rende incompatibile con la propria visione del divino l’accezione politeista, che identifica credenze fondate su un diverso sistema simbolico di rappresentazione del sacro. Fu pienamente accolto, invece, in totale contraddizione con l’ebraismo, l’antropomorfismo della figurazione di Dio e degli aspetti della sacralità.

Anche per i Greci era praticamente implicita l’unità del divino, in qualche modo evocata in quella natura che ebrei e cristiani chiamano creazione. I filosofi, cercando di figurare un’organizzazione credibile del mondo e dell’universo (il termine comprensivo è kosmos), partirono dal kaos, dalla materia potenzialmente disposta a tutte le trasformazioni. Un autore come Esiodo, che si propose di dare nel settimo secolo a. C. forma unitaria alle concezioni del mondo umano e divino che correvano in totale libertà inventiva, compose una Teogonia per raccontare il succedersi delle generazioni divine. L’opera si apre con una cosmogonia che mostra in parallelo come la storia degli uomini si sviluppi in opposizione a quella degli dei. Gli dei passano dal livello primigenio di Urano, a quello di Crono, per giungere a perfezionamento con Zeus che regna con intelligenza e giustizia (Metis e Dike). Gli uomini contrappongono una storia di decadimento: dall’età dell’oro in cui vivevano vedendo gli dei e senza subire le costrizioni del bisogno che portano con sé la violenza, decadranno all’età dell’argento per finire nella presente “età del ferro”. La causa è il peccato: non c’è un angelo decaduto, ma un Titano che, rappresentante della vecchia generazione divina, dà agli uomini il fuoco per proprio arbitrio, senza attendere i tempi del bene conosciuto solo da Zeus; si aprirà così per gli uomini la catena paradigmatica della superbia e della violenza (hybris), punite per contrappeso automatico dalla vendetta del peccato (nemesis).

In questo contesto l’antropomorfismo è un dato ovvio: l’umano conosce soltanto se stesso e, quando pensa il divino, non può che partire da sé. Le antiche potenze arcaiche che infiltravano il mondo della propria diversa forza/energia cedono a rappresentazioni simboliche. Originariamente esistevano primitivi totem animali, che diventarono poi “sacri” alle diverse divinità (il toro per Zeus, la giovenca per Era, la civetta per Atena…), ma la raffigurazione plurale delle diverse competenze del divino in età storica si fonda sul simbolico di principi fisici e metafisici (il cielo, l’autorità, l’amore, l’intelligenza, la forza della natura, il mare, il fuoco…) che l’uomo non riesce a comprendere altrimenti in unità globale. Deve distinguerli separatamente e rapportarli a sé attraverso storie che simbolicamente collegano la volontà degli dei all’esperienza umana. Sono storie che corrono in libertà secondo tradizioni orali che si trasmettono nelle diverse regioni e località e che raccontano miracoli, apparizioni, narrazioni esemplari di peccati puniti, di espiazioni giustificative di mali altrimenti inspiegabili. Diventano anche cultura comune, radicata nel profondo, destinata a trasmettersi nel fascino senza fine del mito.

Il pregiudizio antipagano che continua a limitare la nostra comprensione è riscontrabile nelle poco comprensibili interpretazioni date tuttora nelle narrazioni scolastiche alle storie sacre. Le fatiche di Eracle non sono favole salgariane, ma rappresentano la divinizzazione simbolica dell’evoluzione umana: Eracle nasce da un dio e da una donna e diventa un eroe, elevato all’Olimpo per la sua opera di benefattore dell’umanità attraverso “prove” con cui supera le difficoltà del mondo primordiale. D’altra parte anche il racconto delle avventure amorose degli dei, Zeus in primo luogo, erano “segno” della benevolenza divina volta a fondare la grandezza di famiglie destinate a diventare “nobili” perché vanteranno un dio come capostipite.

Platone supererà definitivamente (anche altri prima ci si erano provati) la cultura diffusa e la pratica tradizionale nell’elaborazione di una teoria che porta all’astrazione i problemi connessi con la vita e la morte, l’origine del mondo e il destino dell’umanità, l’essenza dei divino e delle leggi, l’invenzione della materia opposta allo spirito. Il suo magistero filosofico, e insieme quello del razionalista Aristotele e di altri capiscuola, darà fondamento a teorie destinate a permanere nei secoli. Dalle loro scuole, dallo spiritualismo stoico e, perfino, da interpretazioni del materialismo epicureo sarà segnato il pensiero cristiano, soprattutto a partire dall’autorità di Agostino.

Il filone che chiamiamo “occidentale” e che non sappiamo con chiarezza quanto abbia contaminato la dipendenza dall’Oriente – soprattutto ebraico – per quello che attiene al mito fa riferimento, in Grecia, al teatro. Anche qui l’immaginario moderno tradisce la natura di ciò che non era assolutamente “spettacolo”, ma, piuttosto, sacra rappresentazione. Analogamente sacrale era anche lo sfondo delle competizioni agonistiche: al centro dello stadio di Olimpia stava la statua di Zeus e gli inni di celebrazione delle vittorie erano imperniate sui miti. La natura degli apparati teatrali (l’occasione delle feste del dio Dioniso, l’altare al centro dell’orchestra, l’impegno organizzativo a spese pubbliche) induceva gli spettatori a dare alle storie rappresentate il valore di riflessioni collettive sui grandi temi del conflitto tra il bene e il male e della certezza, ovvero dell’ambiguità, della volontà dei celesti. Per Eschilo quando c’è il male, c’è il segno del peccato: se l’espiazione è impossibile, interviene il giudizio della divinità a risolvere nel bene la situazione disperata. Agamennone ha sacrificato la figlia per propiziarsi il comando dell’armata greca contro Troia: non l’ha fatto per rispetto del profeta, ma per sete di potere e sarà punito; la moglie che lo uccide vendica, giustamente, la figlia sacrificata, ma neppure lei ha il cuore puro, perché liberandosi di un marito scomodo legittima la sua relazione con Egisto. Oreste deve vendicare il padre e uccidere la madre; ma questo crimine va contro natura e causa la follia del figlio. La situazione sembra senza vie d’uscita, ma gli dei sono giusti e Atena inventerà il tribunale, che libera dalla pazzia Oreste, legittimando il valore superiore del seme del padre e convertendo le divinità arcaiche del matriarcato.
Sofocle proporrà il tragico del conflitto tra i valori laici e le coscienze, mentre Euripide ricondurrà i valori tutti dalla parte dell’uomo. Il mito – così come viene tramandato – per lui è solo favola: se gli dei fossero davvero carichi delle passioni e delle parzialità che gli si attribuiscono, sarebbe meglio scegliere la libertà, la dignità, il dolore degli esseri umani.

La religiosità greca non è clericale: ci sono centri religiosi, sacerdoti, teologi, ma senza schermi che condizionino la libertà di accedere al divino con i propri mezzi privati e non soltanto con i sacrifici come li chiedono gli dei, con le preghiere sociali, gli inni civici, le propiziazioni prima delle imprese patriottiche, gli oracoli…. Soprattutto è rilevante l’assenza di dogmatismi, per cui i miti non restano fissi in versioni uniche, ma vanno liberi nei racconti di apparizioni, di miracoli, di interventi imprevedibili nelle tradizioni locali. I filosofi hanno poi interpretato il mito come mezzo di conoscenza di se stessi e del mondo e, ancor più di loro, i poeti. Come la voce del coro dopo la condanna a morte di Antigone: <<Felici quanti hanno una vita non toccata dal male, perché, quando un dio sovverte una casa, sempre è presente la sventura a strisciare sul corpo della discendenza…. Quale superbia umana, o Zeus, potrebbe frenare la tua potenza? Essa non può essere vinta dal sonno che annebbia tutto, e neppure i tempi infaticabili degli dei, mentre tu, signore intangibile del tempo, governi lo splendore scintillante dell’Olimpo. Questa legge varrà ora e in futuro, come nel passato: nessun eccesso coglie la vita dei mortali senza sventura….>>.

Quando il centro si sposterà dalla Grecia all’Egitto e all’Oriente, la cultura ellenistica, che è cultura internazionalizzata, produrrà effetti di pluralizzazione, soprattutto nel sacro: divinità esotiche, riti esoterici, comunità segrete e superstizioni infinite ad uso delle classi meno acculturate e della piccola (e grande) borghesia.
A Roma la storia è totalmente altra, anche se l’Olimpo e la mitologia sono praticamente le stesse. I Romani, infatti, da un lato conservano tradizioni arcaiche che moltiplicano gli aspetti superstiziosi del divino e ogni mamma se il suo bimbo si ammala prega la dea Febbre; mentre dall’altro si conformano alla cultura ellenistica, con una variante che farà storia. Inventano in grande stile l’instrumentum regni, la religione strumento di potere: incomincia Numa Pompilio che racconta di avere incontri segreti con una creatura divina che gli suggerisce ciò che è bene per Roma e finisce con gli imperatori che si fanno “divini” e impongono il culto della loro persona. Perfino le interpretazioni dei filosofi vi si subordinano; prosperano le dottrine più pragmatiche e le etiche incentrate sulla moralità dei costumi: lo stoicismo diventa l’ideologia dell’impero perché l’impostazione personalistica fa comodo a chi governa, mentre l’epicureismo materialista viene censurato perché se gli dei non si fanno coinvolgere nel mondo, l’uomo diventa indipendente e responsabile della propria vita. Forse non è senza ragione che i cristiani venissero accusati di epicureismo e li si definisse atei. In realtà l’incompatibilità fra la “religione di Stato” e la libertà di coscienza rende i cristiani (e tutti gli altri delle storie successive) automaticamente traditori della patria.
Inizia così la fine del paganesimo. Anche le religioni, se perdono lo spirito, possono morire….

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