Attraverso i racconti delle scuole elementari della Sardegna, il “diario” di Maria Giacobbe ci racconta un pezzo di storia d’Italia, con la scrittura sobria e partecipe che traspare già dal titolo. Un libro bellissimo, non conosciuto come dovrebbe, una scoperta e un’iniziazione – “ormai so quali pensieri passano dietro quelle fronti nascoste dalle bende di lana scura o dal berretto a visiera.”

Maria Giacobbe, Diario di una maestrina, Nuoro, Il Maestrale, 2008, pp. 168-174 (I edizione: Bari, Laterza, 1957)

Gli scrutini sono finiti. Il registro e le pagelle scritte. Tutto è ormai deciso: assoluzioni e condanne. È difficile l’ultimo giorno di scuola, forse più del primo. Le frecce dell’orologio s’impigliano ai numeri e il tempo non passa mai.

In realtà da quando ieri l’ultimo bambino ha consegnato il suo elaborato e i più incerti in aritmetica sono stati chiamati alla lavagna mi sembra di non aver più niente da fare che leggere i voti. Assoluzioni e condanne.

Ma quattro ore sono troppe e bisogna in qualche modo colmarle. Racconto una fiaba e permetto ai bambini di sedere sugli scrittoi anziché sui sedili. È una cosa che li diverte e li eccita sempre molto, perciò, ad evitare che divenga insipida, la concedo solo in occasioni speciali. Dopo una prima fiaba la seconda, poi la terza… ho la gola secca, ma il pubblico è insaziabile.

Il giorno della chiusura deve essere gradevole, scelgo perciò un’altra occupazione che diverta i miei alunni. Componimento illustrato su tema libero. Non sanno ancora che le medie son fatte e scrivono con molto impegno, anche i bambini generalmente svogliati e faciloni. Capisco che hanno delle speranze che saranno deluse e mi dispiace. Avrei voluto promuovere tutti, ma questo benedetto senso di giustizia…

“Il sole va ruotando con i suoi capelli di fuoco. Il sole è cattivo. Il sole è rosso. Il sole è molto cattivo. Brucia la terra, l’erba, tutto. E il contadino lavora con i buoi. La luna è povera. È allegra. La luna va sola nel cielo e senza vestiti. Ma lei se ne importa e non ha bambini.”

Il foglio costellato di macchie e la scrittura grossolana sono indubbiamente di Giovanni Piras, “Don Coco”. Suoi i disegni astratti. Triangoli e rombi intersecantesi su piani diversi in due toni di marrone e di arancione. Una spirale al centro deve essere il sole. Raggruppando diversamente le figure geometriche più semplici egli rappresenta di volta in volta: “Una bambina che trascina una casa sul cui tetto grida una cornacchia”, “La mia casa e la mia mamma che porta l’acqua sulla testa”, “La mia sorellina Paolina che ha sei mesi”, “La mia mamma che è sempre ammalata”, “L’autotreno che fa il terremoto”.

La prima volta che mi spiegò, nel suo dialetto ancora infantile, il significato delle sue composizioni credetti che volesse burlarsi di me e che inventasse lì per lì qualunque cosa gli venisse in mente, senza alcuna vera associazione con ciò che gli stava dinanzi.

Per prova, a distanza di tempo, gli feci ripetere le spiegazioni: per gli stessi simboli erano invariabilmente le stesse storie. Un giorno finì per spazientirsi e mi disse: – Ma ve l’ho già detto, questo è il terremoto e questa è Paolina!

Dal suo tono capii che gli pareva ovvio vedere in quegli intrichi geometrici dai colori spenti e la sorella Paolina e il terremoto.

Per esercitarlo nella lingua e per evitare a me stessa di fare confusioni per lui evidentemente offensive, gli ho dato l’abitudine di scrivere un titolo accanto ai disegni.

Sollevo la testa dal foglio e i miei occhi s’incontrano con i suoi, grandi, scuri, obliqui nel viso rotondo schiacciato dal naso camuso che allunga verso la bocca due perenni candele di moccio. La sua solita espressione di fiducia affettuosa non manca di intenerirmi.

Don Coco apprezza i miei sorrisi ed esprime il massimo della sua simpatia chiamandomi compare e dandomi qual e là colpetti camerateschi. Certo imparerà anche lui, un giorno, che questo non si deve fare, ma allora sarà meno simpatico.

Ora che sono in seconda e che cominciano a sentirsi “grandi”, i compagni sorridono di lui e delle sue stranezze, ma con benevolenza. Del resto è difficile non amarlo, cordiale e affettuoso com’è. È curioso lo stupore con cui guarda le cose, anche le più comuni, quasi se ne senta estraneo. Certe volte, come un ospite incerto, sembra chiedere scusa al mondo.

Anche a scuola entra esitante: sulla porta si guarda intorno con un sorriso timido che gli stira la bocca dai denti candidi e radi; poi avanza bilanciandosi sui larghi piedi nudi.

Suo padre, bracciante, sa lavorare di lesina e trincetto e durante la disoccupazione invernale avrebbe tempo per calzare tutti i suoi dodici figli, ma Don Coco va scalzo perché così gli piace. Credo di indovinare in lui il bisogno di entrare nel contatto più diretto con tutte le cose essenziali della vita: la polvere e le pietre delle strade, l’acqua dei rigagnoli, le foglie cadute e l’erba. Anche le mani le appoggia agli oggetti come se tema di muoversi tra apparenze fantastiche; un incantesimo sembra circondarlo.

Nei mesi freddi portava un vecchio spolverino nocciola, da donna, chiuso sul petto da una grande spilla di sicurezza di cui era fiero. Nonostante una cintura stretta nella vita con qualche civetteria, le falde arrivavano alle caviglie lasciando scoperti appena i piedi che solo nelle giornate di neve si rassegnavano alle scarpe. Ora ha smesso lo spolverino e indossa un vecchissimo grembiule nero di cui solo le trame longitudinali hanno resistito all’usura e che perciò si presenta a frange che, partendo dalla cucitura del carré, si fermano ai fianchi sotto le tasche. All’altezza del ventre si allargano mostrano i pantaloni di velluto marrone trattenuti da uno spago. Intorno al collo un fiammante colletto di plastica bianca.

Eccetto alcuni momenti di entusiasmo in cui perde il controllo e scoppia in risate che mettono in subbuglio la classe, Don Coco è un bambino amabile e uno scolaro ubbidiente. Si sforza di far bene ma appena nella strada dimentica i propositi fatti in classe e non si ricorda della scuola e delle lezioni sino all’indomani.

Qualche volta, è capitato spesso nelle prime giornate di primavera, non sa resistere al richiamo del sole e delle lucertole. Allora non riconosce il cancello della scuola e lo sorpassa con indifferenza dirigendosi verso la valle. Dopo le sue fughe mi è sempre venuto incontro sorridendomi timidamente e forse sperando in un rimprovero che gli faciliti l’espiazione.

Vorrebbe seguire le lezioni, ma non gli riesce. Nonostante i nostri sforzi combinati i suoi dettati so sempre carichi di errori, dimentica parole e altre le scrive per metà, e costellati di macchie: l’inchiostro e il pennino devono aver fatto una congiura contro di lui. Non è mai riuscito a imparare una poesia e le tabelline ha cominciato a ricordarle dopo che, per una settimana, io e lui abbiamo rinunciato alla ricreazione, per studiarle insieme. L’ho anche rimproverato, più di una volta, ma on ho ottenuto niente. Così, mio malgrado, il suo nome è fra i condannati. Ho creduto di ubbidire a un’esigenza di giustizia.

Ma ora, tenendo in mano il suo foglio, sono presa dai dubbi. “Il sole va ruotando con i suoi capelli di fuoco…” Dove può aver letto questa frase? So quali sono state le sue letture sino ad oggi: il libro di prima classe l’anno scorso, il libro di seconda quest’anno, i libri della bibliotechina scolastica… Li conosco riga per riga e non c’è nulla di simile. A casa so con certezza che non ha libri…

“… Il sole è molto cattivo. Brucia la terra, l’erba, tutto. E il contadino lavora con i buoi…”

Il dramma dei suo padre, il dramma di tutti i sardi che vivono sulla terra e della terra, il dramma della Sardegna. Il sole che qui da noi non è una benedizione ma un dio malefico dai capelli di fuoco. Il dramma della siccità e insieme della infinita pazienza del contadino sardo che con l’aratro a buoi continua a raschiare la sua terra arida. Il dramma di questi bambini ai quali la violenza del sole rende scarso il pane e spesso nullo il companatico.

“… La luna è povera. È allegra. La luna va sola nel cielo e senza vestiti. Ma lei se ne importa e non ha bambini.”

Il paesaggio cambia. Dopo la tristezza per la vita dell’uomo tenuto dal sole in schiavitù, la luna e la vastità del cielo nel quale essa vaga in tutta la letizia della sua solitudine.

Per i poveri, i rapporti sociali sono spesso un peso e nella luna che può andare in giro sola e senza vestiti il bambino coperto di stracci riflette una sua ideale aspirazione di libertà. Il fatto poi che la luna “non abbia bambini”, osservazione suggeritagli dall’assenza di stelle nelle notti lunari, appare al membro di una famiglia, in cui di bambini ce n’è troppi, una condizione che di per sé è causa di felicità.

Che importa se ci sono tante macchie sul foglio e se la scrittura è grossolana? Don Coco ha imparato ad esprimere la parte più vera e originale di sé, questo mondo nel quale tutto ha un’anima di cui egli intende il linguaggio, senza che il pennino e l’inchiostro lo paralizzino. Don Coco ha vinto la sua battaglia col pensiero scritto. Don Coco ha vinto la sua battaglia col pensiero scritto. Don Coco non merita di essere condannato.

Afferro una gomma: Piras Giovanni di Francesco, rimandato. Piras Giovanni di Francesco, approvato.

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dalla “Postilla all’edizione del 1975, p. 211.

(…) Don Coco, dopo aver passato l’infanzia in un istituto per orfani nel quale apprese il mestiere di meccanico, lavora alla Renault, abita alla periferia di Parigi, è sposato a una bella ragazza egiziana (che “ama la lettura”, come lui mi ha scritto) e di recente è diventato padre (“i figli sono il sole della vota”, secondo una sua espressione in’altra lettera).

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