Daniel Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 241, € 16,00, Traduzione di Yasmina Melaouah

Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è. (J.L.Borges)

L’apprendere molte cose non insegna l’intelligenza. (Eraclito)

“Che ne sarebbe allora

Di tutto ciò che fa il cielo

La luna e il suo passaggio,

E il rumore del sole?”

(Supervielle, L’allée)

Si presenta come alunno di Stefano Benni e poi esordisce:

“Parlo benissimo italiano, ma non capisco nulla”. Così Daniel Pennac dà il via al tour italiano di presentazione della sua ultima fatica Diario di scuola, a Roma. Si tratta di una ricognizione delle conoscenze in merito alla figura letteraria del noto scaldabanco e lui, ci dice, ne sa qualcosa. Oggi professore e rinomato scrittore, svela che in realtà a scuola era un vero disastro, tanto che il padre, prodigo d’ironia, non tardò a predire l’apprendimento filiale dell’alfabeto in 26 anni. Naturalmente non gli ci sono voluti tutti, ma lo scrittore non esita a confermare come la sua carriera scolastica sia stata un’esperienza rovinosa da più punti di vista. Ed ecco, allora, come da un’esperienza personale, davanti e dietro alla cattedra, sia scaturita la necessità di mettere nero su bianco l’annosa e dolorosa questione dei somari. Centro nevralgico del disastro, quel groviglio di aspettative che coinvolge il sistema scolastico, ma lui va oltre, nel profondo del mestiere di insegnare, che rovinosamente si sbriciola di fronte a quel pacchetto di etichette da cui siamo afflitti. Pennac alunno ci parla della figura dei genitori, di sua madre, che porta con sé il vizio insito in tutte le maternità: quello di vedere il futuro dei figli come un presente aggravato, l’essenza di un pensare al presente indicativo. “Se mia madre ci vedesse tutti qui, ora, si rivolgerebbe a voi dicendo: Pensate che se la caveranno questi due?”. Il tempo fermo, una fissità che ingabbia anche l’apprendimento, quando si sviluppa su ritmi che non tengono conto della percezione spazio-temporale dei bambini, diretti interessati.

“C’è il padre irritato che proclama, categorico:

– Mio figlio è immaturo-

[…]Chiedo comunque l’età del figlio in questione.

Risposta immediata. -Già undici anni-

È un giorno in cui non sono in forma. Dormito male, probabilmente. Mi prendo la fronte tra le mani per dichiarare infine, come un Rasputin infallibile:

-Ho la soluzione-

Solleva un sopracciglio. Sguardo soddisfatto. Perfetto, siamo tra professionisti. Allora, questa soluzione?

Gliela do.

– Aspetti-”

Gli adolescenti (“Io e Stefano siamo sprofondati nell’adolescenza”) hanno una percezione del tempo come illimitato, mentre gli adulti hanno coscienza del pendio e dello scivolare inarrestabile, quando, ci dice, gli anni cominciano a contarsi con le decine. Lui, scaldabanco irrecuperabile, è stato salvato da tre o quattro professori e dall’amore, “che non rincretinisce”, ma tutt’altro rende intelligenti! Ed oggi, dall’altra parte, si rende pienamente conto di quei meccanismi propri del somaro. La bugia, ad esempio, è il metodo del somaro per avere coerenza, ma il Pennac professore si chiede: “Indagare sulla verità e sulla bugia è il mio mestiere?”. La complicità, che falsa il successo e rende un fiasco l’esperienza dell’apprendimento, è racchiusa in poche righe: il terzo trimestre sarà decisivo! Con la bugia, si solleva il problema, continua l’autore, dello status del reale, con gli studenti occorre una dissociazione tra la bugia e l’immaginazione, bisogna renderli consapevoli delle loro capacità. Veto, dunque, al pessimismo insito in certe espressioni, come: “Non ce la faccio, non ci riesco” e via libera alla psicoanalisi dei pronomi. Là dove un “Non ci arrivo” ci fa chiedere di chi si parla, perché il verbo non è ciarrivare, ma quel ci racchiude un universo, il patrimonio della psicoanalisi è proprio lì. Allora azzardiamo che la grammatica, in un certo senso, serve a chiarirci le idee, a comprendere chi si nasconde dietro quei ci o ce, a scoprire finalmente qualcosa di sé, perché senza un progetto futuro il presente è vano. Dentro ognuno di noi c’è qualcosa di desto, che lo scaldabanco cela operando quella forma che Pennac definisce ostracismo. Un isolamento palesato da espressioni come: “Lo fai di proposito!”, che gli adulti sono soliti ripetere di fronte alle resistenze filiali. La differenza, allora, tra il somaro e il diligente è la capacità di adeguamento che questi ultimi possiedono, la perfetta integrazione alla situazione. Ma di fronte all’uditorio, la presenza richiesta deve essere intellettuale, così come affettiva per tentare di far scattare quel sentimento di partecipazione, di modo che lo studente possa sentirsi vivo di fronte al professore.

“Ma guardiamoci bene dal sottovalutare l’unica cosa sulla quale possiamo agire personalmente e che risale alla notte dei tempi pedagogici: la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce, perso in un mondo in cui altri capiscono. Solo noi possiamo tirarlo fuori da quella prigione, formati o meno per farlo.”

La nozione chiave è l’amore, al centro della pedagogia chiamata in causa.

Ecco, allora, il momento clou di questa operazione pedagogico-intellettiva, davanti ai nostri occhi, sussurrato alle orecchie di ognuno di noi, giunge quella verità, che come tutte le verità possiede un grado di ovvietà pari a quello di complessità di attuazione: la PASSIONE. Passione per la materia che si insegna, per cui: Insegnanti, se la materia non vi piace, non insegnatela! Passione per il pubblico: dovete amare, dovete avere curiosità e, soprattutto, pazienza con gli studenti. Passione e desiderio di trasmettere: fare di tutto perché gli altri sappiano ciò che io so. Ci redarguisce sul fatto che una ricetta in merito all’insegnamento non esiste, oltre all’andare a letto presto, lui stesso, ci dice, ha fallito più volte, ma se vi manca la passione, cambiate mestiere! Infine, non può mancare un appello in favore degli studenti: la vita, l’identità non si giocano a scuola e nemmeno in un consiglio di classe, il vostro futuro non è lì.

Non sapevo, allora, che anche gli insegnanti ogni tanto la provano, questa sensazione di carcere a vita: rifriggere all’infinito le stesse lezioni davanti a classi intercambiabili, essere oppressi dal quotidiano fardello dei compiti da  correggere (non è possibile immaginare Sisifo felice con un pacco di compiti da correggere!)[…] Non sapevo che la testa degli insegnanti è satura di avvenire. Credevo fossero lì solo per precludermi il mio.(pp.48)

Ma allora, dove sarà finito quel senso di ignoranza indispensabile per insegnare? Insomma il punto zero, la consapevolezza del punto di partenza su cui lavorare? Quella cognizione di causa per cui l’insegnante si rende conto dell’effettiva portata del suo lavoro. Perché il punto d’incontro è questo, il questo a cui non sono preparati né studenti né professori. Niente empatia, niente vestire i panni di altri, il somaro brillerà in altri campi perché a scuola si sente negato. Elaborazione del lutto, scrive Pennac. Ma l’insegnante è amore. Potremmo azzardare che è battaglia, da vincere per giunta.

In un mondo, come quello di oggi, in cui la tipologia dei bambini prevede cinque specie: “Il bambino cliente da noi, il bambino produttore sotto altri cieli, altrove il bambino soldato, il bambino prostituito, e sui cartelloni nella metropolitana il bambino morente […] Strumentalizzati tutti e cinque.”

Il punto di incontro c’è, la chiave esiste (?). Necessità di rimboccarsi le maniche, dunque, perché “una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta”.

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