Primo giorno in una classe in cui 18 volti provenienti da tutti i continenti t’interrogano. Un incontro in cui fin dai primi momenti, dalle prime parole scambiate, l’insegnante avverte che deve completamente mettersi in gioco. In un intreccio di conoscenze e relazioni fluido e cangiante.

(Maura aveva già scritto per le Voci,  febbraio 2007)

 Dieci minuti di ritardo, fotocopie contro il petto e spalla gravata dalla borsa. La pioggia però non copre lo squillo: “Profesora dove sei?”.

Il corso di lingua italiana per lavoratori immigrati, quest’anno, comincia così.

Conquistata la scrivania come a strappare l’arrivo, libero le braccia dalle trafelate carte e m’incarico di accogliere ogni sguardo.

La signora Lucia, argentina di origine italiana, ha fatto gli onori di casa.

Bene…il respiro mi ritrova… ho la “secretaria”, penso, ora tocca sciogliere tutti quei visi interroganti. Parlo lentamente, mi presento, non vedo l’ora di conoscerli.

“Yin Mei?”, leggo dall’elenco. Una mano si tira su.

“Chen!”. La stessa mi indica un tipetto che ridacchia. Ho pronunciato male. Ma la Cina quest’anno non mi sfugge! Scompaiono dopo poche lezioni i cinesi. Non riusciamo a capire se e dove sbagliamo.

“Goutam?”. Se ne tirano su due! E due voci seguono, neanche troppo all’unisono: “Arriva arriva, sta in lavoro”, muovono la testa a voler dire di più. “Ho capito, siete suoi amici!?”. “Sì, no, fratelli”. “Ma siete iscritti anche voi?”. “No no, solo oggi, lui in lavoro, noi sentiamo e poi parliamo per lui”. “Ah, siete proprio i suoi rappresentanti!”. Ridono tutti.

Le lezioni per mandato a dire sono un fenomeno che non riusciamo a evitare. Impegnano ulteriormente chi deve spiegare e rischiano di scuotere le relazioni all’interno del gruppo, costringendo a sempre rinnovate armonie. Eppure continuano a intenerirmi. Qui non ci sono posti da tenere occupati, è tutto gratuito. Ogni loro espediente, rocambolesco a volte, tradisce bisogni e preannuncia limiti, i miei.

“Fareed?”. “Io io, però in corpo“.  Siamo già ai modi di dire, compresi per intuito e intuitivamente riproposti – “in carne e ossa!”, rimedio.

“Noelia?”. Mano sventolata. E poi Irena, Geena, Joseph….

 Ridistribuisco le schede d’iscrizione, voglio ascoltare come riformulano a voce ogni risposta.

 “Da dove vieni, Stevo?”. “Macedonia”. “Bene, vediamo in quanti modi si può rispondere a questa domanda..”. La lavagna si guadagna gli occhi: venire da, essere di

 “Da quanto tempo sei in Italia?”. “Quattro anni”. Impugno il pennarello. “Ufficialmente…” biascica tra i denti. Raccolgo la malizia: “Si sa, ci vuole un po’ a trovare l’ufficio giusto!”. Ridono tutti. Ma è solo l’inizio di un gioco d’intese che ho tutta l’intenzione di condurre.

 “Larisa, dove hai imparato l’italiano?” “Ma qui sicuro! Però prima mia lingua!”. “Nel senso che parli più in rumeno che in italiano?”. “No no, ho imparato il rumeno in Italia!”. Strabuzzo gli occhi. Nella Moldavia, gravitante nell’area di influenza sovietica, ancora dopo il 1991, è stato vivamente promosso l’uso della lingua moldava, di cui si è esaltata la sudditanza al russo, tanto da essere scritta usando l’alfabeto cirillico invece dell’alfabeto latino del rumeno. Una volta in Italia, Larisa si è preoccupata subito di mettersi a studiare il rumeno e la sorpresa per lei è stato trovare aiuto proprio nell’italiano. La singolarità, noto, ha colpito tutti. Mentre lei racconta e ride a guance piene, quel rosso fuoco dei capelli fa il resto. Larisa sarà un imprevisto sostegno ritmico alle lezioni.

 “E tu Ramiz, che lavoro facevi nel tuo paese?”. “Biologo”. “Provate a rispondere per intero: in Egitto ho fatto il biologo, ho lavorato come biologo..per esempio”. Ramiz è timido come pochi. Lavora in una pizzeria. Fra due settimane conoscerò la moglie, operaia col velo in una fabbrica di lavatrici.

 Ormai le domande si generano da sé, si introducono senza aspettare che chiami. Io consumo la mia curiosità e tramo future evoluzioni dialettiche di questa prima conoscenza…

 Diciotto persone per tutti e cinque i continenti. La novità è l’Australia, con Demetrio, di padre greco, qui a studiare da tenore.

Ho davanti a me vissuti personali e curriculari di una diversità che eccita o sconcerta. Alcuni si annunciano ancora per ammiccamenti, frasi mozze, nomi di luoghi che non visiterò mai; altri sanno raccontarsi con salti talora bruschi, dal rimpianto all’acrimonia, dalla sufficienza alla ricerca della mia attenzione.

 La sfida che mi riservano, quasi mi perdona quest’istintiva curiosità di osservar-ci in relazione reciproca.

So che non avrei alcuna speranza di strappare loro, a fine corso, qualche congiuntivo, se non fossi pronta a mettere in gioco non solo me stessa, ma persino il mio italiano. Quale ingenua difficoltà, o non piuttosto il rifiuto di conoscere quale , si cela nell’ipocrisia di chiamare migra-nte una persona qui da anni, che traduce il proprio nome in italiano e affronta un paese straniero, solo quello, una volta per tutte e in ogni sua pretesa…. La parola e-migr-ato è l’unica possibilità del rispetto e del riconoscimento: nella “e” rinsalda il passato, nel verbo l’avventura, in quell’ “ato” l’aporia del presente, grammaticalmente segnato dal passato ancora prima d’essere proiezione nel futuro. Chi può dare del migra-nte ad Ajmal, da tre anni assunto in una ditta di smaltimento di residui chimici, qui con tutta la famiglia: è chi non ha mai lasciato casa in vita propria e pensa vi si torni, prima o poi, e uguali. Chi chiama migra-nte Fareed, master in marketing e qui fattorino in una ditta di traslochi, è chi finge di non sapere che Fareed sappia ciò che vuole per sé e la sorella che lo ha seguito.

Migra-nte è un’offesa, o una tautologia, dell’essere.

 Si rompono le righe e il loro vociare, finalmente autentico, fa da schermo provvisorio al mio desiderio improvviso di chiusura. Pochi istanti in realtà – li sfrutta lo sguardo, contro le schede d’iscrizione..

Posso cominciare a vagliare indizi sulla materia espressiva d’origine e soprattutto sul potenziale creativo con cui hanno agito finora la lingua madre – nel pensiero, nelle relazioni personali, nel lavoro. Saranno argine o conforto dei nostri incontri.

Scendendo le scale mi raggiunge proprio Fareed: “Mi piace, posso portare anche mia sorella?”

Mi attraversa un’impressione di felicità.

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